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SEPARAZIONE E DIVORZIO:
 ASPETTI ECONOMICI DEL RAPPORTO TRA EX CONIUGI

1. L'ex coniuge ha sempre il diritto di prelevare delle somme da un conto corrente cointestato con l'altro ex senza il suo consenso, ancorché le stesse siano frutto di una donazione dei genitori?
Al fine di rispondere si propone la seguente statuizione.
 ORDINANZA N. 9197/2023 - CORTE DI CASSAZIONE I Sez. Civ.
Il caso.
Il marito promuoveva un procedimento giudiziario chiedendo la condanna dell'ex coniuge alla restituzione delle somme prelevate da un conto corrente cointestato in base all'errato assunto che la cointestazione determini tout court donazione indiretta in suo favore a prescindere dalla provenienza delle somme.  
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    Il ragionamento della Corte di Cassazione.

    Prima di giungere alla risoluzione del caso è doveroso fare qualche premessa.

    Nel rapporto tra contitolari è indispensabile distinguere il conto cointestato a firma congiunta dal conto cointestato a firma disgiunta.

    Il primo non pone problemi poiché per compiere delle operazioni è necessaria la firma di tutti i cointestatari.

    Nel secondo caso ciascun contitolare può realizzare autonomamente delle attività bancarie e ciò può far sorgere dei dubbi sulla liceità delle stesse soprattutto nell'ipotesi di coniugi separati.

    Il punto di partenza della giurisprudenza ha ad oggetto la provenienza delle somme.

    Si è precisato (Cass. 29324/2021) che la cointestazione di un conto corrente tra più persone attribuisce a ciascuna di esse, nei rapporti interni, ai sensi dell'art. 1298, comma 2, c.c., la qualità di creditori o debitori solidali dei saldi del conto medesimo, che si dividono in quote eguali, solo se non risulti diversamente (potendo a tal fine anche farsi ricorso a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti).

    Di talché “ove il saldo attivo discenda dal versamento di somme di pertinenza di uno solo dei correntisti, deve escludersi che l'altro possa, nei rapporti interni, avanzare diritti su di esso”.

    Per cui se entrambi i coniugi depositano dei denari sul conto comune, in linea generale ciascuno avrà il diritto di prelevare il 50% degli importi.

    In caso contrario, se il conto è alimentato con importi da uno solo dei coniugi e la contitolarità ha il fine di permettere all'altro coniuge il prelievo autonomo per la gestione delle spese della famiglia, la titolarità delle somme è da ascriversi a uno solo dei coniugi.

    Con riguardo poi alla cointestazione di un conto deposito titoli, la Corte in altra pronuncia (Cass. 4496/2010) ha chiarito che: "in caso di deposito bancario di titoli in amministrazione cointestato ai coniugi, i rapporti interni tra i depositanti sono regolati dall'art. 1298, comma 2, c.c., sicché le parti di ciascuno si presumono uguali, se non risulta diversamente.”

    Per vincere la predetta presunzione, non e' sufficiente la prova di aver avuto la proprietà e la disponibilità esclusiva del denaro utilizzato per l'acquisto dei titoli, valendo la cointestazione a rendere solidale il credito anche se il denaro sia immesso sul conto da uno dei cointestatari o da un terzo a favore di uno solo o di entrambi i coniugi, ed essendo, invece, dirimente la prova della pertinenza esclusiva, in base al titolo di acquisto, del denaro versato in capo a uno dei contestatari".

    In definitiva, dagli artt. 1854 e 1298, comma 2, c.c., deriva che la presunzione circa l'eguaglianza delle quote di conto bancario cointestato rappresenta una presunzione legale juris tantum che, dando luogo soltanto all'inversione dell'onere probatorio, può essere superata attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti.

    Alla conclusione per cui un cointestatario non può prelevare le somme da un conto si giunge anche  qualora una delle parti provi che le somme provengono da una donazione dei genitori.

    Nella fattispecie, e' stata dedotta in giudizio dall'ex marito non la proprietà e la disponibilità esclusiva del denaro utilizzato per l'acquisto del titoli, bensì la proprietà esclusiva dei titoli azionari stessi, che in quanto beni personali, frutto di donazione della propria madre, non erano neppure entrati nella comunione legale tra i coniugi.

    In tale circostanza se il coniuge preleva direttamente il 50% delle somme residue sarà obbligato alla restituzione di quanto prelevato qualora ciò venga richiesto.

    Stante quanto detto la Suprema Corte qualifica la contestazione di somme depositate in un istituto di credito come donazione indiretta soltanto quando viene verificata l'esistenza dell'animus donandi.

    L'ex moglie assumeva che il solo fatto che il coniuge avesse depositato in costanza di matrimonio dei titoli azionari nel conto cointestato avrebbe comportato una donazione indiretta a favore di essa. 

    In effetti, per la validità delle donazioni indirette, vale a dire di quelle liberalità realizzate ponendo in essere un negozio tipico diverso da quello previsto dall'art. 782 c.c., non è richiesta la forma dell'atto pubblico, essendo sufficiente l'osservanza delle forme prescritte per il negozio tipico utilizzato per realizzare lo scopo di liberalità: nella specie, si tratterebbe della cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di azioni depositate presso un istituto di credito, appartenenti all'atto della cointestazione ad uno solo dei cointestatari (cfr. Cass. 3499/1999; Cass. 5333/2004; Cass. 14197/2013).

    Ne deriva che ai fini della configurabilità di una donazione indiretta, occorrerà provare che il proprietario del denaro al momento della cointestazione aveva quale unico scopo quello della liberalità.


    La pronuncia.

    Nella fattispecie la Cassazione allineandosi ad altre statuizioni sull'argomento ha stabilito che: “nella specie, premesso che l'ex marito aveva affermato l'assunto per cui il deposito, di beni comunque personali in quanto frutto di donazione, nel conto cointestato ai coniugi era stato "del tutto fittizio e discendente da mere ragioni di opportunità", la Corte d'appello aveva di fatto correttamente escluso il raggiungimento della prova dell' ”animus donandi” dell'ex marito,  di cui era onerata l'ex moglie.”  

    In effetti, la possibilità che costituisca donazione indiretta l'atto di cointestazione, con firma e disponibilità disgiunte, di una somma di denaro depositata presso un istituto di credito - qualora la predetta somma, all'atto della cointestazione, risulti essere appartenuta ad uno solo dei contestatari può essere qualificato come donazione indiretta solo quando sia verificata l'esistenza dell'“animus donandi”, consistente nell'accertamento che il proprietario del denaro non aveva, nel momento della cointestazione, altro scopo che quello della “liberalità" (Cass. 26983/2008 Cass. 468/2010;Cass.4682/2018).

    Con l'ulteriore e decisivo corollario che l'intenzione di donare o il fine di liberalità, con l'effetto di arricchire gratuitamente il beneficiario, deve emergere, nella donazione indiretta, non già, in via diretta, dall'atto o dagli atti utilizzati, ma solo, in via indiretta, dall'esame, necessariamente rigoroso, di tutte le circostanze di fatto del singolo caso, nei limiti in cui risultino tempestivamente e ritualmente dedotte e provate in giudizio da chi ne abbia interesse.

    In conclusione, in risposta al quesito proposto, se i denari depositati sul conto cointestato provengono dalle sostanze di entrambi i coniugi, l'ex moglie avrà il diritto di prelevare il 50%.

    Diversamente, ossia, se l'importo proviene unicamente dal marito, qualora l'ex moglie prelevi il 50% potrebbe vedersi coinvolta in un azione giudiziaria promossa dall'ex coniuge per la restituzione, salva la dimostrazione dell’animus donandi di quest’ultimo.


    2. L'ex coniuge ha sempre diritto all'assegno divorzile qualora rinunci ad opportunità lavorative e di crescita professionale?

    Per la risposta è illuminante quanto stabilito nella seguente

     ORDINANZA N. 17144/2023 - CORTE DI CASSAZIONE I Sez. Civ.

    Il caso

    L'ex moglie appellava la sentenza del Tribunale di Bologna che aveva dichiarato la cessazione degli effetti civili del matrimonio per violazione dell'articolo 5, co. 6 L. n. 898/70 per non avere il Tribunale determinato correttamente l'assegno di divorzio.

    La norma individua i criteri di cui il Giudice deve tenere conto nella determinazione del diritto all'assegno divorzile e dell'entità dello stesso.

    Il testo dell'articolo:

    “Con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive”.


    Il ragionamento della Corte di Cassazione

    All'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito alla realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (Cass., SU, n. 18287/18)

    La funzione perequativo compensativa dell'assegno divorzile non si fonda sul fatto, in sé, che uno degli ex coniugi si sia dedicato prevalentemente alle cure della casa e dei figli, né sull'esistenza in sé di uno squilibrio reddituale tra gli ex coniugi che costituisce solo una precondizione fattuale per l'applicazione dei parametri di cui all'art. 5, co. 6 L. n. 898/1970.


    La pronuncia

    La Corte di Cassazione ha ritenuto che il riconoscimento dell'assegno divorzile, nella sua funzione   perequativo compensativa deve indurre il Giudice ad effettuare anche un'indagine sulle ragioni e sulle conseguenza della scelta, seppure condivisa, di colui che chiede l'assegno, di dedicarsi prevalentemente all'attività familiare, la quale assume rilievo nei limiti in cui comporti sacrifici di aspettative professionali e reddituali, la cui prova spetta al richiedente.

    Dunque nel caso di specie la Cassazione ha applicato i principi delle S.U. nel senso di affermare che spetta al richiedente l'assegno divorzile provare effettivamente di avere perso concrete opportunità lavorative e di crescita professionale.

     

    a cura dell'avv. Marta Migliaccio


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